Una carrozza per “Monsù Savoia”
E’ una Victoria la carrozza di Vittorio Emanuele II, caratterizzata da una cassa a guisa di barca e da lunghi parafanghi laterali uniti al montatoio centrale a collegare la parte anteriore e posteriore. La cassa è sospesa su molle ellittiche in acciaio, delle quali le posteriori sono interrotte. I timbri impressi sugli assali ci dicono che essi vennero forniti da una ditta specializzata di Parigi. Lunghi e competenti restauri hanno permesso recuperare la tinteggiatura originale di un tono blu più freddo ed intenso rispetto alla cromia di quasi tutti i legni di Casa Savoia.
Il mantice è in cuoio su scheletro in legno di pioppo. La carrozza è provvista, contrariamente alle altre due precedentemente descritte, di impianto frenante a manovella. La carrozza porta la firma della Carrozzeria Fratelli Casalini in Roma, nome che torna frequentemente fra i legni papali conservati nel Padiglione delle Carrozze dei Musei Vaticani, invece soltanto due sono quelle di Casa Reale: questa Victoria appunto, detta “polacca”, ed un’altra conservata presso la Tenuta di Castelporziano. Sino ai primi anni ’70 dell’Ottocento il Grande Scudiere del Re, su disposizione dei sovrani, predilesse l’acquisto di carrozze provenienti dai più rinomati carrozzieri italiani.
Negli anni successivi al 1878 invece la politica acquisti del parco vetture di Casa Savoia si focalizza sulle ditte Casare Sala di Milano e Carlo Ferretti di Roma. La Victoria polacca esposta nell’Armeria Reale torinese, accanto alla loggia dalla quale nel 1848 re Carlo Alberto promulgò lo Statuto Albertino, fu un legno particolarmente apprezzato dal primo re d’Italia. Come possiamo apprendere da uno scritto di Luigi Belloni, Vittorio Emanuele II detestava “le carrozze tutte a cristalli, mettenti in mostra pomposa il sovrano (…) Egli voleva ciò, non per timore di essere visto dal suo popolo; ma perché rifuggiva da tutto quanto fosse gala e teatralità, ed amava ‘victorias’, ‘mylords’ dalle forme comode, larghe, da potervi stare a suo agio, visto da tutti, ma alla buona” In una nota manoscritta segnata in calce all’inventario del 1882 si legge che essa era la “carrozza di cui abitualmente si serviva il Gran Re Vittorio Emanuele II” e soprattutto “fu l’ultima adoprata in Roma avanti la sua morte.” A fine dicembre 1877 il “Re cacciatore”, robusto di corporatura ma delicato di polmoni, passò una notte all’aperto presso un’area paludosa della sua tenuta di caccia laziale. Qui l’umidità, o forse le febbri malariche, gli furono fatali.
La mattina del 5 gennaio 1878, rientrato nel frattempo a Roma, volle uscire in carrozza “per scuotere -egli disse- il malessere che mi sento” e “più tardi disse di voler dormire, perché si sentiva stanco. Nelle ore pomeridiane, nel destarsi, il Re fu assalito dalla febbre…”. Inviò un messaggio di cordoglio alla famiglia di Alfonso La Marmora da poco scomparso, e nella notte le sue condizioni si aggravarono. Non perse mai coscienza e, sentendo avvicinarsi la fine, volle buttarsi la sua giacca grigia da caccia sulle spalle, rimase solo con i figli principi Umberto e Margherita, poi fece entrare anche Emanuele Guerrieri, il figlio avuto dalla Bela Rosin.
Il 9 gennaio alle 14,30 il Re d’Italia moriva. La polacca nel 1885 compare nelle Scuderie fiorentine di Porta Romana alla Pace, successivamente è nel deposito della Tenuta di Castelporziano, quindi al Quirinale, oggi infine a Torino, prima Capitale, dove non solo le grandi persone ma anche le grandi carrozze, hanno fatto la storia d’Italia! La nostra attenzione oggi, tuttavia, oltre al considerare giustamente le tre vetture quale “apparato di Stato”, ha desiderato maggiormente indugiare sull’aspetto più umano, più intimo se mi è concessa l’espressione, che legò con affetto i tre eminenti proprietari ai loro legni. Un piedistallo d’apparenza e lustro, oppure quasi un nascondiglio complice di fughe e complotti, fu il Coupé del Cavour, a seconda di un sapiente gioco di persiane.
La comoda esigenza di un leone ormai stanco e provato da battaglie e patologie scheletriche, si rivelò il Duc di Garibaldi, per non rinunciare fino alla fine, benché anziano in essa, ad arringare ancora le folle e a raccoglierne i plausi da tutte le piazze d’Italia. Infine, la polonese del “Re galantuomo” sulla quale, non tanto il re ma piuttosto “Monsù Savoia”, nei suoi ultimi momenti di vita, come fosse un qualunque stanco borghese del suo nuovo regno, cerca sollievo facendosi condurre, al piccolo e cullante trotto, a fare un giro per la città.