Il concetto cardine dell’economia circolare è tutto qui: usare senza gettare via. Nell’economia circolare i rifiuti semplicemente non esistono (o sono davvero pochi) come avviene d’altronde in natura dove “nulla si distrugge e tutto si trasforma”.
Il dibattito sull’economia circolare nasce in Italia nel 1975 con uno studio sui limiti dello sviluppo (“Limits to Growth”) che aveva lo scopo di proporre uno stile di vita sostenibile che potesse superare le politiche economiche e industriali dell’epoca.
Questo importante passo per la consapevolezza mostrava, per la prima volta come il continuo aumento della popolazione mondiale andasse a scontrarsi con il limite delle risorse esauribili, ovvero quelle disponibili in natura in numero limitato e non incrementabili.
Una volta superata la soglia della disponibilità, lo scenario che si presenta è uno solo: la graduale scomparsa della biodiversità, definita dalla Conferenza dell’ ONU tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 come “ogni tipo di variabilità tra gli organismi viventi, compresi, tra gli altri, gli ecosistemi terrestri, marini e altri acquatici e i complessi ecologici di cui essi sono parte; essa comprende la diversità entro specie, tra specie e tra ecosistemi”.
Poiché gli organismi viventi interagiscono in ecosistemi dinamici, la perdita di una specie può avere un impatto di vasta portata su tutti gli esseri viventi, noi compresi.
Gli autori dello studio, per scongiurare questo esito e salvare lo sviluppo economico, proposero allora per la prima volta a livello globale, una politica basata sull’uso sostenibile delle risorse: l’economia circolare.
A distanza di decenni dalla pubblicazione di “Limits to Growth” ancora consumiamo risorse e produciamo rifiuti come se disponessimo di un altro pianeta. Occorre un cambiamento del sistema produttivo che salvaguardi le risorse naturali, riduca gli sprechi e reintroduca nel sistema economico tutto ciò che ancora non ha esaurito la propria utilità.
Se parliamo di sprechi e in particolare dello spreco alimentare i dati sono allarmanti: il 14 percento circa del cibo prodotto in tutto il mondo va perso tra il momento della raccolta e quello della vendita al dettaglio; il che equivale a una perdita di 400 miliardi di dollari all’anno in valore alimentare, mentre va sprecato un 17 percento stimato della produzione alimentare globale (11 percento negli ambienti domestici, 5 percento nel servizio alimentare e 2 percento nei punti di vendita al dettaglio).
A ciò si aggiunga che le perdite e gli sprechi alimentari concorrono fino al 10% delle emissioni di gas a effetto serra. Risorse preziose come il suolo e l’acqua vengono consumate, sostanzialmente, per nulla.
È necessario risolvere il problema delle perdite e degli sprechi alimentari includendo innovazioni lungo la filiera agroalimentare con prodotti, servizi, modelli e tecnologie potenziati.
È altrettanto importante sensibilizzare al problema e trovare soluzioni valide ed efficaci che possano aiutare cittadini e aziende a sprecare meno risorse alimentari.
Maturare la consapevolezza della relazione tra cibo, risorse e ambiente e quindi sui problemi legati allo spreco alimentare è probabilmente il primo passo che la nostra società può fare per contrastarne gli effetti negativi e in quest’ottica, l’educazione riveste un ruolo fondamentale.
Ogni medico veterinario deve farsi parti attiva per divulgare nella società le buone pratiche volte alla riduzione degli sprechi alimentari, al fine di favorire piccoli cambiamenti delle abitudini quotidiane che possono avere un grande impatto globale.
“Dobbiamo partire dal cibo come ricchezza, come scambio, come cultura. Solo proteggendo il nostro cibo possiamo pensare di salvaguardare le nostre risorse e il pianeta che ci ospita” (Carlo Petrini- Scrittore)
Articolo a cura di Daniela Mulas
Federazione Nazionale Ordini Veterinari Italiani. Per tutte le info visita il sito ufficiale: www.fnovi.it